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CSA: cosa sono le Comunità che Supportano l’Agricoltura? Intervista all’Az. Agricola Podere Cimbalona

     

    L’acronimo sta per Community Supported Agricolture, ovvero “agricoltura supportata dalla comunità” o, meglio ancora, Comunità che Supporta l’Agricoltura e definisce un nuovo modello socio economico di prossimità, che coinvolge direttamente produttori e consumatori. Sono loro che costituiscono, per iniziativa di una o di entrambe le parti, una CSA condividendo così rischi e benefici legati alla coltivazione della terra su piccola scala e garantendo condizioni di lavoro dignitose a chi se ne occupa. Ma come funziona esattamente questo modello e cosa comporta? Per conoscere più nel dettaglio queste realtà, abbiamo intervistato Sara Sansoni e Daniele Bucci del Podere Cimbalona, azienda agricola certificata biologica della provincia di Ravenna, che da qualche mese ha creato al suo interno proprio una CSA. 

    CSA, o Comunità che Supporta l’Agricoltura: come funziona?

    La prima forma di sostegno è di tipo economico: all’inizio della stagione, i soci fruitori versano una quota annuale all’azienda agricola che a sua volta si impegna a fornire un certo quantitativo di frutta, ortaggi e altri prodotti a ogni singolo contribuente, il più delle volte tramite una cassetta settimanale. Si tratta spesso di prodotti biologici o biodinamici la cui varietà viene decisa di comune accordo tra tutti i partecipanti in fase di budgettizzazione. Si crea così un’economia solidale di lunga durata, che può assumere identità giuridiche più o meno articolate, ma che valorizza in primo luogo la sicurezza e la sostenibilità alimentare, e il rispetto delle risorse naturali e dell’agroecosistema locale. 

    Facendosi carico di una parte del rischio di un’impresa basata su un’agricoltura a basso impatto ambientale (con coltivazioni perlopiù fuori serra e senza l’uso di pesticidi chimici, pertanto soggetta inevitabilmente a imprevisti meteorologici), i consumatori accettano dunque la variabilità dell’offerta – esercitando però in modo inedito il loro diritto alla sovranità alimentare.

    Dall’altra parte, l’agricoltore è a sua volta supportato dal rapporto di fiducia e dal patto economico stretto con i suoi contribuenti, riceve un pagamento equo per ciò che produce e, a seconda della tipologia di collaborazione intrapresa, può trovare anche un aiuto concreto nella coltivazione grazie a volontari e soci lavoratori. 

    Come nascono e come si sviluppano le CSA

    Come evidenziato anche dal rapporto sulle Comunità che supportano l’agricoltura in Europa redatto nel 2016 da URGENCI, la rete internazionale delle CSA, non esiste un modello unico di CSA perché, semplicemente, non esiste un’azienda agricola o una fattoria uguale all’altra. Il tratto distintivo di questo tipo di organizzazione è proprio la sua flessibilità, che risponde a bisogni particolari e si adatta alle esigenze per cui viene fondata. 

    Tuttavia, è possibile tracciare una rapida cronistoria dell’origine delle CSA e della loro distribuzione attuale. L’ispirazione viene dal Giappone dove, a partire dagli anni Settanta, vengono stipulati i primi Teikei (letteralmente “Cibo con il volto del contadino”) ovvero accordi tra contadini e consumatori per l’approvvigionamento diretto di alimenti sani. Negli stessi anni, analoga filosofia e modus operandi vengono adottate anche da alcune realtà del Nord America, mentre dagli anni Ottanta l’Europa inizia a conoscere le prime CSA e a farle proprie, anche dal punto di vista lessicale (in Francia vengono chiamate AMAP e in portoghese Reciprocos).

     

    Secondo i dati riportati dalla ONG Deafal (Delegazione Europea per l’Agricoltura Familiare di Asia, Africa e America Latina), nel 2016 le CSA hanno coinvolto 6.300 aziende agricole e 465 mila consumatori in 16 paesi Europei, tra cui l’Italia. Nel nostro Paese sono diverse le esperienze di CSA su tutto il territorio italiano e con dimensioni variabili: tra le altre vale la pena citare Arvaia, CSA e fattoria didattica bolognese nata nel 2013, che conta oggi più di 400 soci (spesso provenienti dai vicini centri urbani) ed è sicuramente un esempio della molteplicità di attività e vantaggi che questa forma di aggregazione può portare. 

    Non solo filiera corta, rispetto dei limiti ambientali e cibo di qualità a un prezzo dignitoso, ma anche – e non ultimo – uno strumento contro lo spopolamento rurale e l’impoverimento anche culturale dei territori. Le CSA promettono infatti di ristrutturare in maniera consapevole il modo in cui (acquistiamo ciò che) mangiamo, accorciando le distanze tra città e campagna e riducendo gli sprechi. 

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